martedì 29 dicembre 2015

La mortadella.

Mi sono riservato di pubblicare questa storia, proprio in questo periodo, in questi giorni di cenoni, lenticchie e zampone, ho pensato che "la mortadella", potesse essere il racconto più adeguato, non è una storiella hard come il film della Marini non è un racconto di calcio che so non vi appassiona e non è nemmeno il racconto di una abbuffata.
Allora torniamo per un attimo al mio arrivo, il primo anno a Terrasini, non voglio passare per uno sciupa femmine, ma la storia è questa ed io da grande scrittore di fama internazionale, vi vedo che vi siete girati a sghignazzare, devo descrivere i fatti, con lucida ed onesta realtà.
So che prenderò qualche scappellotto da mia moglie che mi dirà:...questo non me lo avevi raccontato..., ma sono cose del periodo avanti Cristo, volevo dire, prima dell'incontro fatale, ma il cronista che c'è in me, mi obbliga ad andare avanti fino in fondo.
Quindi il primo giorno che siamo arrivati a Terrasini, era un venerdì pomeriggio, del mese di giugno e sono venuti a salutarci e a darci il benvenuto, gli amici del collega di mio padre, che villeggiava già lì da tempo e che lo aveva indotto a mollare la villeggiatura mordi e fuggi, per una più "elegante" villeggiatura stanziale.
Fatte le presentazioni del caso, Giuseppe e Rosario di qualche anno più grandi di me, mi hanno dato appuntamento per la sera, per portarmi in giro ed iniziarmi alla movida terrasinese degli anni sessanta, in quella casa a me era toccato il lettino, nel disimpegno superiore, mentre alle mie sorelle Flora e Cettina, la cameretta accanto, che in un certo senso era riservata.
La casa era una vecchia casa di paese, sulla strada che portava al lungo mare, difronte al vecchio campo sportivo di Terrasini e poco distante dalla balera, la famosa "cantina" ed era composta con un grande stanzone all'ingresso con cucina e servizio, due alcove difronte e una scala laterale che portava sopra sul disimpegno che vi dicevo.
Perchè disimpegno, in pratica da questa stanza si andava nella stanza attigua, quella delle mie sorelle e poi salendo un paio di gradini sul terrazzo e a sua volta da li con con un'altra scala di una cinquina di scalini sul tetto-terrazzo, diciamo che la mia stanza, somigliava agli arrivi e partenze dell'aeroporto, anche perchè nel terrazzo, ci si faceva la doccia, ci si stendevano i panni e ci si arrostiva il pesce.
Cosa volete, è la mia vita, se c'è qualcuno che deve accollarsi qualche disaggio, non c'e neanche bisogno di fare la conta, ci sono io, anche se in quel caso devo dire, che il disaggio è stato ben ripagato.
Dove ero arrivato ? ... mi perdo sempre nelle descrizioni, si, sono salito a prendere possesso del mio "alloggio", mi sono sistemato qualcosa qui e là, ho fatto la doccia e in pantaloncini sono sceso nello stanzone a mangiare.
Appena ho finito sono tornato agli arrivi e partenze dove dormivo, per vestirmi, avevo appena tirato su i pantaloni e indossato la camicia, stavo abbottonandola quando ho sentito il peso di uno sguardo alle mie spalle.
Mi sono girato e seduta sulla scala che portava al tetto-terrazza, c'era una ragazza con i capelli corti e anche la gonna corta, che mi guardava, io con passi felpati (avevo paura che volasse via come un uccellino), ho salito quei due o tre gradini che mi separavano dal terrazzo e andandogli incontro ci siamo salutati.
Tu chi sei ? gli chiesi pensando di avere bevuto troppo (continuavo a rubare il vino a mia sorella Cettina), e lei rispose: Rita e tu ? onestamente fin qui, sapevo del gatto con gli stivali che parlava, di un ciocco di legno che parlava, il famoso pinocchio, ma di un'allucinazione parlante no, ... io risposi, Salvo, ma qua che ci fai ? da dove vieni ? replicai.
Era la ragazza della famiglia che stava nella casa alle spalle della nostra, anche loro salendo, salendo, avano il tetto-terrazzo confinante con il nostro e siccome mi aveva visto arrivare, voleva conoscermi, siamo stati un pò a parlare, quando si sentì chiamare da suo padre, mi ha baciato e mi ha detto: ci vediamo domani sera qua, alla stessa ora, ed è scappata via.
Non ero ancora arrivato e avevo addirittura trovato la ragazza, veramente era stata lei a trovarmi, ma questo conta poco, sono uscito con i miei nuovi amici, ho conosciuto un sacco di ragazzi e ragazze, ballare, bere, fumare (sigarette), mi sentivo nel paradiso terrestre, io che a Palermo passavo il mio tempo libero all'angolo del corso Olivuzza o a Mondello con l'autostop e il costume affittato.
Dal quel giorno sole, spiaggia, mare, belle ragazze, tamburelli, partita scapoli e ammogliati, sarde (questo lo approfondiremo dopo), fidanzatina (anche questo poi l'approfondiremo), ballare, birra, strusciate, spaghettata di mezzanotte e ramino pokerato fino alle 4 del mattino, ma un ragazzo di 16/17 anni, che cosa poteva volere di più.
In quel periodo, c'era una pesca di pesce azzurro eccezionale e per ospitalità i vicini, mogli o madri dei pescatori, ci recapitavano ogni giorno, sacchetti pieni di sarde, per noi che venivamo dalla città, tutto questo pesce era una manna (a me il pesce non è mai piaciuto), così, pasta con le sarde, fritturina di sarde per secondo, sarde in salamoia per l'inverno e poi la sera, sarde in tutti i modi, possibili e immaginabili, tutti giorni.
A me che il pesce non piaceva, dopo i primi sacrifici, cominciai a lamentarmi con mia madre, lei mi diceva: .... no ne che li possiamo buttare, a Palermo farebbero carte false per avere e gratis tutto questo ben di Dio, così io ad un certo punto gli dissi: bene, voi mangiatevi pure il ben di Dio, ma io pesce no ne mangio più e capisco che papà non mi comprerà di certo la carne, ma anche la mortadella per me va bene, sempre meglio delle sarde.
Erano passati una ventina di giorni da quando ci eravamo trasferiti per le vacanze e sistematicamente tutte le sere, appena finito di mangiare, salivo in terrazza a pomiciare (l'approfondimento) con la mia ragazza, fin tanto che non sentivamo la voce del padre che la chiamava, lei andava via e io andavo alla "cantina" a ballare.
Allora, facciamo quindi .... più o meno al ventunesimo giorno, mia madre trovò il coraggio e mi comprò la mortadella, 100 grammi tutti per me, ci siamo seduti a tavola, tutti con il loro piatto di sarde davanti ed io finalmente fuori dal coro con la mia bella mortadella.
Cominciavo a pregustare la serata, l'odore della mortadella superava quello delle sarde fritte, il pane caldo e fragrante mi stimolava le papille, avevo già un languorino che non vi dico e poi pensavo anche a cosa mi aspettava, dopo quella meraviglia di insaccato con i pistacchi, quando.....mio padre.
Ma questo perchè non mangia il pesce come noi ! dice rivolgendosi a mia madre e lei: perchè a lui il pesce non piace, subito calò un velo di tensione, tutti con gli occhi bassi sui piatti, il silenzio era interrotto solo dall'esercizio di togliere le spine alle sarde.
Qui, si mangia tutti la stessa cosa per tutti, tuonò mio padre, tolse la mortadella dal tavolo e mi disse mettendomi un piatto di sarde davanti: chistu c'è su vuoi (questo c'è se lo vuoi) ed non ti alzi se non hai finito di mangiare.
Tutti mangiavano freneticamente e con gli occhi bassi, io pensavo che non avrei mangiato quel pesce neanche morto, e poi avevo un appuntamento importante su in terrazzo, presi la mafalda (pane tradizionale palermitano), la tagliai, ho appoggiato sul pane aperto, delle fette immaginarie di mortadella, richiusi il pane (vuoto) e lo addentai.
Tutti mi guardavano sott'occhio temendo l'ira di mio padre, io imperterrito continuavo a mangiare il pane con la finta mortadella e ad un tratto, feci come per liberare la bocca, da un finto filo che solitamente resta attaccato sulla fetta, un altro morso e poi con la rotazione della mano destra, esprimevo tutta la mia compiacenza.
Fù a quel punto che mio padre scoppiò a ridere, prese l'involucro con la mortadella, la mise sul mio piatto e sempre ridendo mi disse: .... ma va.....va .... e tutti li a ridere, ho finito di mangiare il pane, adesso con l'affettato vero e mi sono precipitato all'appuntamento sul tetto.
Quel gesto ironico, poteva scatenare l'inferno, invece ci ha liberato dalla schiavitù della cena con le sarde, è sempre stato il mio modo di affrontare la vita, così con ironia, da quel giorno mio padre la mattina andando a lavorare a Palermo, si portava e divideva i sacchetti con le sarde, ad amici e parenti, facendo la loro e la nostra felicità. 

venerdì 18 dicembre 2015

Non sono nato allenatore.

Come vi dicevo, ogni tanto una storia di calcio la devo mettere, giusto per allungare il sugo, il fatto che ho allenato per trentaquattro anni, lascerebbe pensare che ho sempre fatto l'allenatore, invece quattro calci ad un pallone li ho dati pure io.
Nello spiazzo davanti alla mia scuola elementare, ci riunivamo tutti i ragazzi del quartiere, i più grandi facevano la conta e formavano le squadre, io che per quell'età dodici-tredici anni, ero il più alto e anche il più scarso, finivo per andare in porta, come succede in qualsiasi latitudine di questa terra.
Quello piano piano, diventò il mio ruolo e così dall'asfalto della piazza, passai a giocare nei campi polverosi, un campo vero con tanto di porte, nel mio rione abitava il presidente di una squadra di borgata il Falsomiele e così mi prese nell'organico dei giovanissimi.
La mia prima partita fu traumatica, intanto perchè mi fecero giocare con i grandi, ero emozionatissimo tanto che i ricordi sono ancora più confusi e non solo dal tempo, i calciatori in campo, venivano sempre allo scontro e si verificavano continui screzi tra loro e l'arbitro, ero onestamente un po deluso.
Ad un certo punto del secondo tempo, dopo l'ennesimo screzio, ho visto l'arbitro correre inseguito da un calciatore, con alcuni che provavano a fermare l'aggressore e chi invece si scagliava con questi alimentando la rissa, io ero in porta proprio vicino agli spogliatoi, stava arrivando l'arbitro e l'inseguitore teneva in mano un coltello.
Più veloce della luce me la sono data a gambe e mi sono infilato nel primo spogliatoio aperto che c'era e che si richiuse velocemente dietro me, si accese la luce e chiusi la dentro c'ero io e l'arbitro, forse scelta sbagliata, subito si sentì battere sulla porta di ferro, urla e grida fuori da essa che durarono un bel po.
Io ero spaventato, ad un tratto ci fu silenzio, pochi secondi e si udì la voce del mio presidente che ci rincuorava e ci invitava ad uscire, che era tutto finito.
Sono entrato nel mio spogliatoio e con gli altri ragazzi più piccoli, abbiamo preso velocemente gli indumenti e ancora vestiti da calciatori siamo scappati, abbiamo preso in quelle condizioni il primo autobus che passava e siamo andati a rivestirci nello spiazzo antistante la scuola.
Nei giorni a seguire, il presidente ci rassicurò che il calcio non era quello e siamo tornati a giocare, l'anno successivo mio padre mi portò negli allievi del Palermo, tutta un'altra cosa, il più lungo (ma nel frattempo gli altri erano cresciuti e mi avevano pure superato) e il più scarso aveva fatto "strada", per modo di dire.
Mi allenavo allo stadio, veramente mi ci spogliavo solamente perchè facevamo gli allenamenti in uno spiazzo la vicino, Di Bella l'allenatore del Palermo di allora, non voleva che si rovinasse il manto erboso, così (neanche allora c'era un centro sportivo) dalla "primavera" in giù, si faceva allenamento fuori e le partite le facevamo in un bel campetto in erba nella borgata di Vergine Maria.
Avevo abbandonato la sacca e le scarpe chiodate che mi aveva regalato mio zio Giacomino e la maglietta con i pantaloncini fatti da mia madre, con i resti delle stoffe, perchè mi davano tutto al campo, tute, magliette, scarpe, riciclavano il materiale che i calciatori della prima squadra smetteva.
Sia per andare al campo per le partite, che per le trasferte andavamo in pulman e poi ogni mese avevamo un rimborso spese per i soldi dell'autobus di due mila lire al mese, qualcosa come 35/40 euro d'adesso, con la prospettiva di allenarsi con quei professionisti, con cui ti incontravi negli spogliatoi, Reja per esempio. 
Negli allievi del Palermo sono stato per due anni, allora gli anni degli allievi erano tre e il terzo anno l'ho fatto nella squadra "Imperatore", da li sono passato nella Juniores del Terrasini, ben presto il secondo portiere della prima squadra, che militava in prima categoria, ha avuto un diverbio con l'allenatore ed è andato via, decretando di fatto il mio passaggio come secondo in prima squadra.
La prima categoria di allora era un po come l'eccellenza di adesso, una categoria appena sotto al semiprofessionismo, tant'è che vi giocano calciatori che poi sarebbero diventati professionisti, come Trapani che giocò poi come portiere nel Palermo.
Belle soddisfazioni e poi anche li mi pagavano, mi davano un rimborso spese di 1500 lire a settimana, circa 75/80 euro al mese, per il treno che mi portava agli allenamenti e alle partite (certo a quei tempi e poi con la lira il potere d’acquisto era differente).
A Terrasini andavo a fare gli allenamenti col treno e la domenica col pulman di linea, tornavo sempre con la “porsche” del portiere titolare Nicola Oddo , uno che stava bene di famiglia e poi lui era un “semiprofessionista” perché era in prestito dal Bagheria serie D, e mi ricordo che facevamo da Terrasini al corso Olivuzza (eravamo entrambi di quel rione), in dodici minuti esatti e non c'erano tutte le curve che incontravo col pulman, lui le prendeva tutte nell'altra corsia.
Comunque giocare a Terrasini era una faticaccia, così sono tornato a giocare (senza soldi) a Palermo, nella Juniores della Jeve Olivuzza, dove mio zio Matteo era il vice presidente e il presidente era quel presidente della vecchia squadra del Falsomiele.
Devo dire che ci hanno provato in tutti i modi a farmi desistere dal praticare questo sport, il coltello di Falsomiele e le corse spericolate (ho visto la morte con gli occhi) con la Porsche di ritorno da Terrasini, ma io e la mia scarsezza abbiamo vinto.
Foto tratte dal web:

martedì 1 dicembre 2015

Tutti al mare.

La domenica estiva e quindi di mare, cominciava il sabato pomeriggio, mio padre era a lavoro e mia madre sempre alle prese con bambini piccoli e faccende di casa, così delegava il compito di fare la spesa a me e a mia sorella Flora, rispettivamente 10 e 8 anni.
Lei scriveva su un foglio di quaderno la spesa e noi andavamo a comprarla, la merceria non era distante, saranno stati una ventina di metri da casa, ma allora come ora, il sabato pomeriggio andavano tutti a fare la spesa e nella confusione, noi che eravamo piccolini, per furbizia dei grandi e per la nostra statura, non ci vedeva mai nessuno.
Così passavamo ore in merceria a fare la spesa, era estenuante, noi volevamo andare a giocare e invece dovevamo stare lì, così capitava spesso di distrarci e di perdere i soldi che ci aveva dato la mamma, a parte che venivamo rimproverati, sempre comunque e lo stesso, perchè o ci davano le cose sbagliate, o nel tragitto merceria-casa, facevamo un buco nella carta del concentrato di pomodoro (la salsina) e ne portavamo a casa sempre la metà.
Poi tutta questa spesa pesante per due bambini, la dovevamo salire fini al terzo piano senza ascensore, quando arrivava il sabato pomeriggio era bello perchè l'indomani si andava al mare, ma era un incubo, che continuava già dalla domenica mattina presto.
La domenica mi madre si alzava prestissimo, i condimenti li aveva preparato già il sabato sera quasi notte e di buon mattino preparava la pasta al forno, le melanzane, le cotolette, preparava tutti i pacchi e pacchetti.
Ci svegliava a turno e ci aiutava a lavarci, si alzava anche mio padre e io andavo in gelateria a comprare il gelato, che mi metteva già nei bicchieri che mi portavo da casa, poi un paio di filoni ancora caldi, un pezzo per uno e facevamo colazione a pane e gelato.
Mia madre sbrigava le ultime cose ed io con mio padre, mastello al seguito, andavamo a fare la fila per il ghiaccio, un altra rottura e appena arrivati a casa si caricava la macchina, li trovavamo tutto "l'equipaggio" e si partiva.
Arrivati al "Lido Azzurro" attraverso tutte quelle traversie che vi ho raccontanto, mio padre ci divideva il "carico" ed andava a posteggiare, tornando alla gabina quando le operazioni di "sbarco" erano già concluse e con le sole chiavi della macchina in mano.
La nostra gabina era l'ultima la numero 40, alla 39 c'era una cugina di mia madre la zia Gianna e alla 38 dei lontani parenti di mio padre i Mocada, noi avevamo l'ultima gabina perchè accanto c'era lo spazio dove sistemare tutto quello che ci portavamo dietro, canotto in primis.
Sulle gabine poi ci torniamo, ma passiamo al sottoscritto, a me toccava come ultimo viaggio, il mastello con il ghiaccio e le bibite e a parte che pesava un accidenti e poi portarlo sulla sabbia per tutto quel tragitto, vi lascio immaginare, ma la cosa che mi dava un fastidio enorme, era il fatto che mi prendessero per uno che vendeva le bibite sulla spiaggia, la cosa mi faceva vergognare ed incazzare da morire.
Mio padre con lo zio Nino il marito della cugina di mia madre e il Signor Moncada, montavano i teloni per fare ombra fra le gabine e davanti le porte delle stesse, sistemavano ombrelloni e tavolini, mentre la mamma, la zia Gianna e la signora "Monreale" preparavano da mangiare, tutti i bambini invece di corsa in acqua.
Lo zio Tanino che veniva al mare solo per stare in compagnia e giocare a carte, si sedeva all'ombra a leggere in corriere dello sport, lo zio Giacomino faceva la corte a Enza Moncada, motivo per cui "ammuttava" con piacere la macchina, il suo grande amore perso, perso perchè gli dava continuamente un bel due di picche, la zia Anna seduta sulla tovaglia sulla spiaggia, fissava un giovanotto palestrato che stava su di una barca sull'arenile, barca che comunque non era la sua.
Tutti i bambini si accorgevano dei due che si guardavano intensamente e appassionatamente e correvano a dirlo a mia madre che rispondeva: zitti, zitti, non gli e lo fate sentire a Mario, mio padre, perchè avrebbe fatto una scenata di gelosia a sua sorella, la zia Anna.
Lo zio Giacomino nonostante i rifiuti, continuava a provarci con Enza, del resto come dargli torto, occhi azzurri, capelli biondi leggermente mossi, un bichini mozzafiato che negli anni 60 era quanto dire e un "davanzale" che faceva invidia all' attrice più prosperosa del tempo, onestamente anche se avevo 10 anni, piaceva tanto anche a me.
Al bichini di Enza faceva da contr'altare lo Nino, un uomo bellissimo, un attore, tanto somigliate ad Amedeo Nazzari, con un costume di lana ascellare, che ancora oggi dopo avere trovato una spiegazione a quasi tutto, non riesco a capire come potesse sopportarlo, bagnato e con quel caldo.
I figli della zia Giovanna erano diciamo un po antipatici, Angelino il più piccolo li batteva tutti, passava il tempo a fare il bagno, usciva dall'acqua e mangiava, ancora il bagno, usciva e mangiava, lui stesso in dialetto siciliano ripeteva: ....fazzu u bagnu e manciu, fazzu u bagnu e manciu...., ma la cosa antipatica non era il fatto che mangiasse così tanto, quanto che a tutti piaceva la pasta al forno di mia madre e noi toccava poi quella brutta di sua madre.
Andare al mare era un supplizio, dovevi sopportare tutte queste situazioni, per non dirvi che tutto il giorno mi mandavano a comprare: la birra, le sigarette, i gelati eccetera, io mi lamentavo perchè dovevo farmi 40 gabine, sotto il sole e con la sabbia rovente, per consolarmi e a quel punto non potevo più lamentarmi, mi davano la compagnia, voi pensate Enza, magari, mi accompagnava suo fratello Renato.
Renato era un bambino della mia stessa età, solo che era trasparente, in che senso, era magro e scuro tipo Biafra e tutti al passare, lo chiamavano e lo facevano avvicinare, per spiegare a figli l'anatomia, vi giuro non c'era bisogno di radiografia, le parti anatomiche si intravedevano che era un piacere e andare a comprare qualcosa al bar con lui, per me diventava scocciante, sarò stato insofferente, ma permettete !
La gente all'imbrunire andava via, noi accendevamo il lumi a gas e cenavamo in spiaggia, io ero stanchissimo, tutto il giorno sotto il sole, senza il riposino pomeridiano, scottati e salati, dopo cena si sbaraccava e caricata la macchina si ripartiva per la città, mio zio Giacomino "ammuttava" e mia zia Anna si faceva venire il torcicollo, per guardare dietro il suo giovanotto aitante, che ci seguiva in lambretta.
Arrivati a casa, mio padre scaricava la macchina, e a noi toccava portare tutto al terzo piano senza ascensore, canotto sgonfio compreso, meno male che non c'era più la pasta al forno, la parmigiana, le cotolette e che il mastello era vuoto, senza il quarto di blocco di ghiaccio, mio padre andava a posteggiare e si ritirava con le sole chiavi della macchina.